Ma che storia ALLUCINANTE è mai questa?!?!?!
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Giuseppe Laganà, "Senza identità e senza Patria. La storia degli italiani internati in Albania", Domani, venerdì 7 febbraio 2025, pag. 15.
Pierino Cieno è stato per 38 anni, dal 1951 al 1989, in un campo di lavoro a Saver: «Si erano dimenticati di noi» In "Papà non torna" racconta questa incredibile vicenda: «Ho sognato l’Italia ogni notte della mia vita»
Era sera ed era uno dei miei primi lavori giornalistici. Verificavo le segnalazioni di storie e notizie che giungevano al programma televisivo. Quella sera, dall’altra parte della cornetta, una voce dal chiaro accento dell’Est cominciò a raccontare: «Mi chiamo Pierino Cieno, ho 54 anni, sono nato a Tirana nel 1951 ma sono italiano come mio padre, la mia mamma è albanese. Mio padre, ingegnere, lavorava per la ricostruzione del paese balcanico. Nel 1951, avevo poco meno di un anno, scoppia una bomba nell'ambasciata sovietica di Tirana. Viene accusato mio padre insieme ad un gruppo di italiani. Vengono rimpatriati dopo un processo sommario. Erano tutti innocenti. Io e mia madre avremmo dovuto seguirli dopo circa una settimana. Invece, mentre la nave militare, con il suo carico umano, si staccava dal porto di Durazzo, io e mia madre venivamo condotti a Saver. Un campo di internamento perso nelle campagne d'Albania. Ne siamo usciti solo nel 1989, dopo 38 anni. C'erano centinaia di civili italiani. Si erano semplicemente dimenticati di noi.... Mi sono sposato in un gulag, ho avuto dei figli in un gulag, mi sono aggrappato all'unica immagine che avevo di mio padre e sono sopravvissuto con un unico obiettivo...riabbracciarlo un giorno. Ho sognato l'Italia ogni notte della mia vita...».
Rimasi in assoluto silenzio. Mentre Pierino parlava, provavo a verificare qualcosa online, cercare una data, una frase, un avvenimento rispetto a questi “italiani d’Albania” ma, all’epoca, non trovavo alcun riscontro. La telefonata durò circa un’ora e mezza e chiudemmo con la promessa che ci saremmo risentiti il giorno dopo. Chiamai anche i miei vecchi professori universitari di storia contemporanea. Nemmeno loro sapevano granché di questa faccenda. Poi, qualcuno mi consigliò di rivolgermi all’ambasciata italiana in Albania e fu allora che questa incredibile vicenda umana cominciò ad avere appigli reali, consistenti, storici. Almeno per quanto riguardava il contesto in cui era maturata. Una storia che, all’epoca, era pressoché sconosciuta, e anche oggi relativamente dimenticata.
L’accordo del 1945
Il contesto è quello relativo agli italiani che, all’indomani della fine del Secondo conflitto mondiale, in virtù di un accordo controfirmato nel 1945 dall’allora sottosegretario italiano alla Guerra, Mario Palermo, e dal primo segretario del Partito del lavoro d’Albania, Enver Hoxha, rimasero bloccati nel paese balcanico per oltre 40 anni, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Un accordo che consentiva all’Albania di trattenere sul suolo balcanico tutti quegli italiani, civili, professionisti, specialisti, che potessero servire alla ricostruzione del paese.
Presto la dittatura impedì a queste persone qualsiasi contatto con l’Italia e con l’ambasciata. Le lettere, anche quelle provenienti dalla madrepatria, furono censurate o non recapitate ai destinatari e le maglie del regime determinarono per queste persone discriminazione, processi politici e prigionia.
Rinunciare a tutto
Decidemmo con Pierino che prima o poi sarebbe stato il caso di mettere nero su bianco questo incredibile racconto, e già dall’inizio capimmo che non avremmo mai voluto realizzare un libro intervista. Scegliemmo quindi la forma che, a nostro giudizio, avrebbe maggiormente preservato le emozioni, le lacrime, la nostalgia, la speranza e anche, perché no, la gioia della parola raccontata oralmente.
Quelle parole e sensazioni che ci hanno accompagnato durante tutta la stesura del libro Papà non torna. A partire dal titolo. Ricordo una frase che Pierino mi ripete spesso, «l’Italia che sognavo quando ero rinchiuso con mia madre nel campo di Saver e poi di Belsh aveva le rughe del volto di mio padre. Un’Italia fantastica, una sorta di paese delle meraviglie per il quale ero stato condannato a vivere ai lavori forzati. Più mi punivano per essere figlio di italiani e più mi sentivo italiano». Cosa voleva dire per un bambino rinunciare a tutto? Anche alla propria identità? Rinunciare addirittura al proprio nome italiano?
«La maestra Juka prima di ogni lezione ci indottrinava sulle meraviglie della rivoluzione comunista. “Come si chiama il nostro grande padre?”, diceva. E noi in coro gridavamo: “Enver Hoxha”.
“Come si chiama il nostro primo ministro?” “Mehmet Shehu” e guai a sbagliare.
Questo succedeva ogni giorno. (...) Ma io quel giorno avevo altro da fare. Dopo ripetuti tentativi ero riuscito a vedere inciso su un foglio di carta il mio nome.
“Ma bravo il nostro italiano!”. Disse la maestra cogliendomi sul fatto.
“Vedete bambini, gli italiani stavano per rovinare questo paese ma il nostro grande padre è riuscito a fermarli in tempo. Non vi fidate mai degli italiani, sono traditori, fascisti e figli dell’imperialismo occidentale. Loro non sanno cosa sia il lavoro, sono solo buoni a rubare. Guardate il vostro compagno Pjerin. Suo padre è stato un criminale fascista ed è per questo che Pjerin vive internato insieme a sua madre. Non ci si può fidare degli italiani. Per colpa di suo padre, il vostro compagno è costretto ad essere diverso da noi". La maestra Juka prese il foglio di carta dove avevo lasciato la prima firma della mia vita e lo mostrò alla classe. “Come si chiama il vostro compagno?” “Pjerin Dema” Si levò in coro. “Guardatelo ora sta piangendo. Ha anche la faccia tosta di piangere”. Non ero riuscito a trattenere le lacrime tale era stata l’umiliazione. Sapevo che il cognome di mio padre mi era stato tolto e che per le autorità albanesi, avevo assunto il cognome albanese di mia madre, “Dema”. Sapevo che non potevo parlare italiano. Sapevo tutte queste cose. Eppure, per la prima volta nella mia vita ero riuscito a scrivere il mio unico vero nome: Pierino Cieno. La maestra si avvicinò e mi diede uno schiaffo».
Sposarsi, avere dei figli, in un campo di prigionia e poi, caduto il muro effettuare un viaggio della speranza lungo tre giorni e tre notti verso l’Italia con Leoncino, il primogenito chiamato come il nonno, alla ricerca di un papà sognato e alla ricerca soprattutto di sé stessi.
«Era l’arrivo di una corsa iniziata prima ancora di muovere i primi passi. Era un cartello, una scritta nera su sfondo bianco: Trieste. Il treno si fermò non appena passata la dogana, per una breve sosta. Leoncino continuò a dormire, ignaro dell’enorme salto che le nostre vite, la mia, la sua e quella della nostra famiglia rimasta a Tirana, avevano appena compiuto nel giro di pochi istanti. Lo lasciai dormire mentre io mi precipitai giù dal treno per toccare terra. Era come se volessi sentire la consistenza del suolo italiano. Come se inconsciamente non mi fidassi della vista e chiedessi conferma a un altro senso.
Avevo con me una scatola di biscotti, preso dalla foga di scendere me l’ero portata dietro. Quello era stato il nostro pranzo e la nostra cena durante le trenta ore di viaggio. Rimanevano cinque o sei biscotti, non di più. Probabilmente qualche briciola, dalla scatola, era caduta vicino ai miei piedi. Poiché cominciò a radunarsi un folto gruppo di piccioni. Prima uno, poi due, poi tre, poi dieci. Sbriciolai tutti i biscotti rimasti senza pensarci due volte. In pochi minuti, mi ritrovai circondato da una folla di ali vibranti, strepitanti come un applauso. Un rumoroso coro di benvenuto. Scoppiai in lacrime, come un bambino. Ora potevo concedermelo. Ora che mio figlio dormiva e non poteva vedermi, ero libero di essere ciò che ero. Fatto di carne e lacrime. Come tutti».
Essere straniero e condannato per questo in Albania ed essere considerato albanese una volta giunto in Italia, a causa di un italiano imparato di nascosto ascoltando Radio Vaticana e di un volto che non nascondeva la propria storia. E poi questa idea di Patria così semplice e così spoglia di ideologia. «Cos’è la Patria per te?» Ho chiesto molte volte a Pierino. «È la terra di mio papà… quella dove potevo realizzare i miei sogni!». La terra dei propri sogni appunto.
jazzouche
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